Biblioteca Civica Bertoliana

Novità

Tutti gli indirizzi perduti

Tutti gli indirizzi perduti

Risa sbarca ad Awashima in un mattino freddo di primavera, con sé ha una sacca misteriosa gonfia di buste. L’isola è bellissima, piena di luce, ma si sta spopolando: le scuole chiudono e gli abitanti invecchiano. Eppure proprio lí c’è un minuscolo ufficio postale davvero unico. Raccoglie tutta la corrispondenza che, da ogni parte del Giappone e del mondo, viene imbucata ma non è possibile recapitare al destinatario. «Awashima è l’indirizzo che ha preso in carica tutti gli indirizzi perduti della terra». Risa si è offerta di catalogare le tantissime lettere arrivate in dieci anni all’Ufficio postale alla deriva (è questo il suo nome). Chi scrive al marito che non c’è piú, chi al proprio cuscino, chi chiede perdono a una lucertola a cui da bambino ha rubato la coda, chi si rivolge alla vecchia vicina di casa che gli leggeva libri quando era piccolo, chi manda cartoline alla madre che diventerà, augurandosi di saper trasmettere l’allegria. Un lavoro enorme, quello che si è presa in carico Risa, come setacciare l’oceano, ma lei lo fa per ragioni di cuore. Perché suo padre è un postino, e ha lavorato tutta la vita affinché neppure una lettera andasse perduta. Se dal padre ha imparato la dedizione e la tenacia con cui ci si può prendere cura delle cose e delle persone, l’eredità che le ha lasciato la madre è ben piú complicata. La sua è stata una madre intermittente, che conosceva parole magiche per evocare creature del bosco e il cui sguardo offuscato si accendeva all’improvviso su ciò che agli altri restava invisibile. Sua madre le ha insegnato la poesia e la curiosità verso ciò che è estraneo, perché «è dall’incontro con gli sconosciuti che può nascere lo straordinario». Ma ad Awashima Risa è venuta anche per un altro motivo, che finora ha tenuto segreto. Il sospetto – o la speranza – che tra quelle migliaia di parole d’amore, rimpianto, riconoscenza, biasimo e gioia, ce ne siano alcune indirizzate proprio a lei.

La mano dell'orologiaio

La mano dell'orologiaio

Una gru, una delle tante che affollano lo skyline di Manhattan, si abbatte su un cantiere edile causando morti e feriti. La dinamica del crollo non è chiara, ma una cosa è certa: non si è trattato di un incidente. La responsabilità del disastro è subito rivendicata dal Kommunalka Project, una cellula terroristica che promette di sabotare una gru ogni ventiquattr’ore se l’amministrazione cittadina non si deciderà a convertire alcune proprietà di lusso in alloggi sociali. Il sindaco non è disposto a scendere a compromessi: con i terroristi non si tratta. A chi rivolgersi, quindi, per scongiurare una potenziale catastrofe, se non alla coppia più brillante della scienza investigativa, Lincoln Rhyme e Amelia Sachs? Chiamati a collaborare alle indagini, il criminologo più famoso d’America e la moglie-collega scoprono che dietro all’incombente minaccia si nasconde il loro nemico storico, il più astuto, l’unico che sia mai riuscito a sfuggire alla cattura: Charles Vespasian Hale, alias l’Orologiaio. Tornato sulle scene dopo tanto tempo, è mosso da interessi economici e da un voto fatto a se stesso: uccidere Rhyme. Una seconda gru precipita, New York è preda del panico, il tempo scorre inesorabile. La coppia di investigatori dovrà affrettarsi, altrimenti il caos sarà totale. Nel capitolo cruciale della serie che lo ha consacrato maestro del thriller a livello internazionale, Jeffery Deaver alza la posta in gioco, dimostrando ancora una volta il talento inarrivabile nel tracciare, tra le infinite traiettorie possibili, l’unica che nessuno oserebbe immaginare.

Una nazione bagnata di sangue

Una nazione bagnata di sangue

Perché gli Stati Uniti, la ricca, meravigliosa terra della libertà e delle opportunità, sono anche il Paese piú violento del mondo occidentale? Paul Auster si è interrogato a lungo su questo paradosso e nell'ultimo libro della sua vita, quasi a ideale testamento, si è destreggiato tra ricordi privati e memoria collettiva per andare al cuore del dilagante fenomeno della diffusione di armi negli Stati Uniti e dei sanguinosi massacri che ne sono scaturiti. Mute testimoni della scena del crimine, le fotografie di Spencer Ostrander accompagnano le sue parole ritraendo i luoghi delle stragi in tutta la loro normalità. Scatti in bianco e nero, senza alcuna presenza umana, perché di umano non è rimasto piú nulla. Pistole giocattolo e film di cowboy: per molti bambini cresciuti negli anni Sessanta, americani e non, erano questi gli ingredienti di un’infanzia passata a imitare gli assalti agli accampamenti Indiani e le sparatorie tra valorosi sceriffi e malvagi pistoleri. Non meno diffusa era la consuetudine di imparare a usare un fucile per andare a caccia. Talentuoso tiratore fin dalla tenera età, Paul Auster ha conosciuto anche l’altra faccia delle armi – non strumenti di gioco o di pratica sportiva, bensí di distruzione – quando ne ha scoperto i segni indelebili all’interno della famiglia paterna: sua nonna aveva ucciso il marito, suo nonno, con due colpi di pistola. Questo episodio di inspiegabile violenza fornisce lo spunto per un’acuta riflessione critica su un’America dove la presenza di armi è ormai dilagante. A partire dallo sterminio della popolazione indigena in epoca coloniale, attraverso la condizione di schiavitú spietatamente imposta a milioni di africani, fino all’onnipresente notizia di sparatorie di massa tra i titoli del giorno, Auster prova a spiegare a se stesso e al lettore i motivi dell’uso e dell’abuso di armi da fuoco, e anche la fascinazione che esercitano ancora nell’immaginario collettivo americano. In un registro contabile di profitti e perdite, se la prima colonna riporta il crescente numero di armi in circolazione negli Stati Uniti, la seconda mostra in negativo la catastrofica cifra dei morti d’arma da fuoco dal 1968 a oggi. Numeri che rappresentano uomini, donne, adolescenti, bambini, persino neonati. E come un coro greco, muto testimone della scena del crimine, le fotografie di Spencer Ostrander ritraggono i luoghi delle stragi in tutta la loro quieta e squallida normalità. Luoghi quotidiani, comuni, talvolta brutti e banali, ma non per questo meritevoli dell’orrore a cui hanno assistito. Luoghi riproposti in scatti in bianco e nero, senza mai alcuna presenza umana, perché di umano non è rimasto piú nulla.

Animali in giallo

Animali in giallo

Animali assassinati o assassini; bestie domestiche, di allevamento o di laboratorio; macchine semoventi come voleva Cartesio o persone antropomorfizzate; usati come copertura di misfatti o bersaglio di delitti; esempio di una natura violentata o membri effettivi dell'antropocene; sono l'Altro del crimine, l'innocenza assoluta. I sette splendidi tori da corrida sono stati fucilati con tiro preciso per mascherare l'omicidio del loro guardiano o è il contrario? Questo è il dilemma di Marta e Berta Miralles, le disparate sorelle poliziotto di Alicia Giménez-Bartlett, con cui inizia questa raccolta di racconti. Saverio Lamanna è alle prese con il grosso Socrate, un altro povero cane garrotato, e una signora scomparsa: piste che permettono all'ironico Gaetano Savatteri, il creatore della coppia Lamanna-Piccionello, di imbastire un giallo brillante. Domenico Cigno, giornalista molto sovrappeso nato dalla penna di Luca Mercadante, fa il suo esordio in questa raccolta (e un nuovo romanzo uscirà presto per i nostri tipi): un bracciante senegalese è morto nel casertano, dilaniato da un branco di cani, il «Mucchio randagio», o così sembra; si apre la caccia e, dietro il massacro annunciato, Cigno con inutile pietà scopre un'altra verità. Una scia di morti sbranati indica al candido e sveglio agente Acanfora - il detective napoletano di Andrej Longo - un'ipotesi di strana vendetta. Un asino e una capra, il primo placido e l'altra birichina come natura comanda, osservano l'inchiesta della giornalista Viola - la protagonista dei gialli scritti da Simona Tanzini affetta da un pittorico disturbo della percezione -; lei scava in un odio antico, finito nel sangue per bizzarre cause naturali. Una specie di racconto della camera chiusa è quello di Marco Malvaldi e Samantha Bruzzone: mentre la chimica Serena è in Giappone in viaggio di piacere, la sua amica poliziotta Corinna la coinvolge da lontano in un caso di omicidio dentro un laboratorio, perché Serena sa di veleni, precisamente di «batracotossine». Nella Casa di Ringhiera, protagonista ambientale delle ciniche storie condominial-criminali della penna di Francesco Recami, una massaggiatrice cinese è stata dilaniata da una forza sovrumana: il commissario Ametrano pensa a un gorilla o a un orangotango come nel racconto di E. A. Poe, in mancanza di altre soluzioni. Il sentiero che questa nuova raccolta di racconti in giallo cerca di percorrere è quello del detective messo di fronte, mentre affronta un mistero criminale, a un mistero ancor più grande e affascinante: il rapporto tra gli uomini e gli altri animali.

I miei anni con Jane Austen

I miei anni con Jane Austen

Un racconto di sé nel quale, mentre ci parla del proprio tortuoso percorso d'amore, delle sue riflessioni sullo scorrere del tempo e sulla metamorfosi dei sentimenti, dell'esperienza teatrale della madre e degli studi del padre, Rachel Cohen incessantemente ripete: «Se avete già letto Jane Austen, siate suoi rilettori». Spesso chiediamo ai libri che leggiamo di portarci altrove e di sospendere temporaneamente l’urgenza della vita. Ma ai libri che rileggiamo chiediamo risposte sul nostro presente. Rachel Cohen ha, per sette anni, ragionato su di sé e sui romanzi di Jane Austen per venire a capo del lutto, della gioia e della bellezza. Sembra che qualcuno abbia chiesto una volta al filosofo Gilbert Ryle se, oltre ai testi di filosofia, leggesse anche romanzi. E sembra che Ryle abbia risposto: «Sí, ovvio, ogni anno li rileggo tutti e sei». L'aneddoto è riportato da Rachel Cohen nelle prime pagine del suo testo, da una parte allo scopo di introdurre Jane Austen in tutta la sua grandezza, e dall'altra al fine non meno importante di far ridere il suo amatissimo padre ormai molto malato. Del proprio libro, Cohen afferma che si tratta «del memoir di un periodo della mia vita segnato dalla malattia e dalla morte di mio padre e dalla nascita dei nostri due figli; di una riflessione sui romanzi di Austen, e di un libro su come leggiamo e rileggiamo in tempi di solitudine e di trasformazione». Leggiamo per tanti motivi, spesso per concederci una sospensione momentanea dalla vita che stiamo vivendo. Ma ci sono libri di cui siamo rilettori, e a questi ci accostiamo in modo completamente diverso, con la mente affollata di ricordi. Ci sono libri che vogliamo sfidare ad accompagnarci in tempi differenti del nostro percorso; certi accolgono la provocazione e ci raccontano storie nuove, soprattutto di noi; altri invece non reggono e restano collegati a fasi passate della nostra vita e delle nostre letture. Rileggere significa comunque verificare la tenuta del nostro entusiasmo. Rachel Cohen sfida se stessa come rilettrice di Austen tramite la traversata estrema dei suoi romanzi e, naturalmente, trova la forza di una voce autoriale che non la delude, ma anzi rilancia e complica le sue aspettative. Sono sette anni di assiduo confronto e di scambio con una compagna di viaggio eccezionale a cui Cohen affida con pazienza il disordine dei suoi pensieri e delle sue emozioni, facendosi guidare dalle sorelle Elinor e Marianne di "Ragione e sentimento", dalla Fanny di "Mansfield Park", da Emma, dall'Elizabeth Bennet di "Orgoglio e pregiudizio" e dalla Anne Elliot di "Persuasione". E nel rivolgere ai testi domande sul proprio lutto e sullo scompiglio felice prodotto dalla maternità, scopre l'impatto profondo di ogni dettaglio, accordando il proprio ascolto del tempo all'apparente irrisorietà del quotidiano sulla scorta della grande lezione austeniana.

L'età sperimentale

L'età sperimentale

Nessuna generazione prima di questa ha raggiunto la vecchiaia in così numerosa formazione e in uno stato così attivo, e questo – scrive Erri De Luca – la rende oggi un’età sperimentale. Un’occasione, dunque, la possibilità di scoprire qualcosa di nuovo di sé e degli altri, di allenare il corpo e la mente con maggiore consapevolezza e forse con più gusto. Non invece il momento, come pensano in molti, di guardare soltanto indietro. “A che somiglia quest’età?” si chiede De Luca. “Alla risalita di un bosco di montagna. Nel fitto delle conifere entra poca luce, vedo giusto quello che mi sta stretto intorno, ma verso l’alto si diradano, si aprono radure, c’è più luce. In questa età da cima del bosco vedo lontano, scorci di futuro, non il mio, quello senza di me. Il poeta Goethe morente pronuncia le sue ultime parole: ‘Mehr Licht’, più luce. Non è una richiesta, è la sorpresa di vederla splendere. Oggi vedo una gioventù che sente il proprio futuro tutt’uno con quello della Terra intera. Guarda lontano, avvista l’avvenire. Anche io, anche i nuovi vecchi vedono più lontano, in cima al loro bosco.” Grazie anche al contrappunto di Ines de la Fressange, celebre stilista e amica dell’autore, L’età sperimentale è un libro e al tempo stesso un’occasione, per scoprire quante possibilità racchiude la terza età – ciascuno trovi la propria, e De Luca ne cita molte –, e tutto il vantaggio di aver guadagnato “lo slancio del tempo accumulato, potente catapulta del participio passato del verbo passare”. “È un’età sperimentale. Ho la strana sensazione che nessuno è stato vecchio prima di me. La vecchiaia di chi mi ha preceduto non mi fa da modello e non mi prepara a niente. Per il corpo di ognuno, quando succede è per la prima volta.”

Newsletter

Iscriviti alla newsletter per ricevere tutti i nostri aggiornamenti!